venerdì 19 aprile 2024

CAMBIARE LA SCUOLA

“Stop a lezioni frontali, compiti a casa, studio mnemonico.

 La scuola italiana può cambiare e vi dico come”.

 

INTERVISTA a Daniele Novara di Vincenzo Brancatisano

 “Cambiare la scuola si può”. Ne è convinto Daniele Novara, pedagogista e fondatore, del CPPP, il Centro Psicopedagogico per l’educazione. “Da almeno 100 anni – si spiega nella presentazione del suo libro intitolato “Cambiare la scuola si può. Un nuovo metodo per insegnanti e genitori, per un’educazione finalmente efficace” – la scuola italiana è impostata allo stesso modo – mentre riforme e maquillage educativi, come la digitalizzazione, fingono che le cose stiano cambiando”.

 In realtà “nulla si muove: lezioni frontali, compiti a casa, studio mnemonico continuano a essere al centro della didattica, spesso senza motivazioni pedagogiche, e i nostri figli imparano con lo stesso metodo delle generazioni precedenti, come per inerzia. In questo libro, Novara demolisce, “uno per uno, i falsi miti dell’istruzione e propone un metodo maieutico che, in alternativa alle pratiche antiquate che ancora governano la grande e complessa macchina dell’istituzione scolastica, pone al centro la scuola come comunità di apprendimento: una comunità dove si impara dai compagni, si fanno domande, si sperimenta in laboratorio, si sbaglia e ci si diverte, e in cui l’insegnante agisce come un regista, lasciando il protagonismo ai suoi allievi”. libro incita genitori e insegnanti “a cercare nuove motivazioni, fornendo intanto alternative concrete e attuabili per ritrovare il senso autentico della scuola. Con un po’ di coraggio, entusiasmo e voglia di uscire dai soliti schemi”.

 Questo “non è un libro di istruzioni per costruirsi la propria scuola ideale – precisa Daniele Novara, che intanto annuncia il convegno del prossimo 20 aprile intitolato La scuola non è una gara – La scuola ideale non esiste. Il mio scopo è aiutare insegnanti e genitori a cogliere la ricchezza e le potenzialità della scuola di oggi che, anche fra gli addetti ai lavori, è spesso considerata un’istituzione sostanzialmente irrecuperabile.”

 “Nonostante i tanti sforzi per cambiare, modificarsi e aggiornarsi – spiegano gli organizzatori del convegno – la scuola appare ancora fortemente dominata dalla dimensione del controllo e del giudizio, che ne pervade le modalità procedurali e didattiche ostacolando una motivazione profonda negli alunni e nelle famiglie verso la necessità della formazione e dell’apprendimento. Controllo e giudizio la fanno ancora da padroni con modalità di valutazione basate prevalentemente sui voti numerici, con un’idea di selezione che corrisponde spesso alla denuncia fatta dalla scuola di Barbiana ed è ben poco legata a fattori di merito in senso stretto. Non solo un evento, un’esperienza indimenticabile. Una scuola, soprattutto nelle secondarie di primo e secondo grado, ancora fortemente basata su metodi frontali che implicano un ascolto sostanzialmente passivo da parte degli alunni. Il giudizio diventa l’anticamera di una scuola vista come gara, come competizione tra chi arriva primo e chi arriva secondo. Gli indici scolastici italiani, che rivelano tassi di dispersione altissimi, il numero più basso di laureati in Europa e una percentuale considerevole di Neet – ragazzi che non studiano e non lavorano – oltre a un’incidenza preoccupante di neuro certificazioni, lasciano intendere senza mezzi termini che questo modello è arrivato al capolinea senza più avere alcuna possibilità di rispondere alle necessità di una società complessa e avanzata come quella italiana”.

 La focalizzazione di Daniele Novara è sulla “situazione-stimolo”, un metodo che il pedagogista descrive come fondamentale per contrastare l’approccio tradizionale dell’insegnamento, troppo spesso incentrato su lezioni frontali. Questo metodo si propone di scardinare l’idea che imparare sia sinonimo di ascoltare passivamente. Novara mette in luce come i tempi di attenzione degli studenti siano limitati e come la predisposizione alla distrazione sia un elemento naturale. Il suo approccio rivoluzionario – “non rivoluzionario, ma efficacemente pedagogico senz’altro”, precisa lui – mira a trasformare la scuola in un laboratorio di esperienze, dove gli alunni diventano protagonisti attivi del loro apprendimento. La “situazione-stimolo” diventa così un catalizzatore per lo sviluppo di domande e ricerche da parte degli studenti, spaziando da argomenti scientifici a quelli letterari e cronachistici. Novara critica l’approccio didattico basato su domande di controllo, come quelle relative ai dettagli storici o geografici. Invece, propone l’uso di domande maieutiche, che stimolano la riflessione e l’esplorazione personale. Questo tipo di domande apre spazi per un apprendimento più profondo, basato su esperienze e interessi personali.

 Contrariamente ai tradizionali esercizi estivi, Novara propone i “compiti di realtà” come un metodo più efficace di apprendimento. Questi compiti includono attività come visitare mostre, guardare film all’aperto, esplorare la natura, leggere libri, viaggiare, o imparare nuove lingue e abilità. Tali esperienze aiutano gli studenti a imparare in modo applicativo e significativo, facilitando l’acquisizione di competenze per la vita.

L’obiettivo principale del metodo di Novara non è che lo studente sia in grado di ripetere meccanicamente le informazioni, ma che sappia applicarle nella vita reale. Ad esempio, piuttosto che memorizzare dettagli sulla lingua latina, sarebbe più utile che uno studente possa leggere e comprendere un’epigrafe latina in una chiesa.

 Professor Daniele Novara, in che cosa consistono le domande maieutiche?

 “Per antitesi si tratta di domande contrarie alle domande di controllo con le quali si cerca di verificare che il proprio interlocutore conosca quel che ci si aspetta”.

 C’è una precisa allusione alla scuola

 “Sono domande molto legate alla scuola tradizionale dove il docente in forma illegittima pone una domanda su una questione che conosce già e vuole che l’alunno gli dia proprio la risposta che conosce già facendo una cosa che non ha senso: nessuno chiederebbe al marito come si chiama, perché lo sa già”

 E invece?

 “E invece a scuola questa idea che gli alunni debbano conformare le proprie conoscenze a quelle del docente è molto diffusa. Si crea in questo modo una scuola petulante e prevedibile e con scarsa curiosità. In realtà il docente dovrebbe essere un regista del processo di apprendimento, un regista maieutico, in modo da poter scoprire qualcosa di inedito, qualcosa di nuovo. Per gli alunni e per lui. Il docente ha la padronanza dei processi di apprendimento ma non ha la certezza delle risposte. La padronanza maieutica conduce i propri alunni alla scoperta inedita, alla scoperta quasi sempre innovativa non solo in ambito storico o scientifico ma in qualsiasi altro ambito. Utilizza le discipline come mezzo e non come finalità”.

 Lei sostiene che le domande di questo tipo sono domande generative. In che senso?

 “Nel senso che le domande maieutiche generano processi di apprendimento. Non è necessariamente la ricerca della verità ma più una metafora ostetrica”

 È il So di non sapere di Socrate?

 “Socrate cerca la verità, noi no. Noi cerchiamo di far nascere nuove scoperte di apprendimento ma a prescindere dalla verità. E’ un metodo che si applica in tutto il processo di apprendimento, con i bambini al nido, alla scuola dell’infanzia. Ad esempio, in primavera o agli inizia dell’estate durante le esplorazioni in giardino si cerca di scoprire gli indizi della nuova stagione fotografandoli e creando una storia. Qui nascono delle domande che non hanno una risposta esatta. Ogni giardino ha i propri indizi. Però ci sono anche le domande su questioni controverse”.

 Per esempio?

 “Per esempio: è necessario che ogni rivoluzione abbia dei morti? Questa è una questione controversa che può generare una, tra i ragazzini che hanno più di 15 anni una ricerca. Si pensi all’identità sessuale: anche in questo caso si generano molte domande. Una delle questioni più controverse è se un bambino di 10 anni debba assumere il farmaco che ritarda la pubertà in attesa di decidere un giorno se fare o meno la transizione sessuale. Io su questo tema ho la mia risposta ma è interessante attivare un processo di ricerca. E ancora: che senso ha portare degli esseri umani su Marte? Sono domande di ricerca non necessariamente filosofiche. Nel mio libro, Cambiare la scuola si può, racconto di un laboratorio in una chiesa medievale di Piacenza nella cui cripta è stato ritrovato un mosaico con i segni dello Zodiaco. È una cosa strana perché è una chiesa paleocristiana. La domanda maieutica che vi scaturisce è: che cosa c’entra un segno zodiacale con un’immagine precristiana con una chiesa paleocristiana? È stato molto interessante perché vicino alla chiesa c’era la biblioteca e si è scoperto con una ricerca che fino all’anno 1000 la commistione tra simbologia cristiana e simbologia precristiana era normale o comunque tollerata. Solo dopo avviene una cesura su questa commistione. Questo è un modo per fare storia dell’arte facendo domande generative invece che andare nelle chiese romaniche e ascoltare uno spiegone interminabile sul rosone, che diventa di una noia interminabile e privo di interesse. Quest’ultimo è un atto mnemonico, un atto, cioè, che attiva la memoria e non l’apprendimento. L’apprendimento è applicazione, e quando fai un’attività di ricerca o di laboratorio di ricerca ti resta tutta la vita, perché l’hai attraversata. Se invece l’hai ascoltata come una lezione, scivola via subito e al massimo la usi per un’interrogazione più o meno programmata”.

 La realtà scolastica – si ripete sempre con tono non lusinghiero – è dominata dalla lezione frontale

 “La lectio, la lezione fontale, è un’invenzione medievale perché all’epoca non c’erano ancora i libri. Fino al 1400 si leggevano i manoscritti, quindi è un dispositivo molto arcaico. Poi arriva Gutenberg e da allora non c’è più bisogno della lectio: si passa allo studio e all’uso dei libri come strumento di studio e di conoscenza. Invece qualcuno è ancora affezionato e innamorato della lectio”

 Perché è così critico nei confronti delle lezioni tradizionali?

 “Sono critico perché uccidono la motivazione e l’interesse degli alunni. L’unica cosa che le lezioni hanno prodotto è lo sguardo catatonico degli alunni: ti guardo, caro prof, senza ascoltarti ma tu incautamente pensi che io ti stia ascoltando e gongoli ritenendo che la classe ti stia ascoltando. Invece non ti ascoltano. Questo l’ho scoperto parlando con i ragazzi. L’apprendimento è qualcosa di fattuale è qualcosa che si fa, che ha una necessità operativa. Per esempio, dovremmo andare in una chiesa e chiederci quali sono i misteri di questa chiesa e poi su questi misteri dovremmo provare a chiederci qualcosa sulla sua storia con domande maieutiche. Il fatto è che la scuola tradizionale confonde le informazioni con l’apprendimento e questo è assurdo da tutti i punti di vista. Avere informazioni non significa avere competenze applicative. Io ad esempio ricordo il mio inglese grammaticale, di quando ero ragazzo, ma la prima volta che sono andato in Inghilterra è stata una cosa paurosa. Però, se non ti fanno parlare… Cosa faceva Don Milani? Mandava gli alunni nei ristoranti inglesi, l’unico modo per imparare la lingua è la full immersion. Temo però che oggi lo arresterebbero…”.

 Se si riferisce ai tanti vincoli e tutele, certo sembra di vivere ormai in una società quasi sterilizzata

 “Ha detto bene, è stata sterilizzata un’intera società. Io da ragazzo ho sempre lavorato con i miei genitori. A volte mio padre esagerava, certo. Ma oggi è difficile anche fare una gita scolastica”.

 Lei sostiene anche la didattica cooperativa, basata sull’imitazione reciproca

 “A scuola abbiamo un elemento importante, l’elemento sociale. L’imitazione è molto importante. La pedagogia moderna nasce quando Pestalozzi sperimenta il metodo del mutuo insegnamento perché era da solo con una masnada di ragazzini. Lì nasce la pedagogia moderna: non è isolando gli alunni tra di loro, ma solo aiutandosi, condividendo, mettendosi in un atteggiamento di gruppo e di solidarietà reciproca otteniamo un dato scientifico e cioè che a scuola si impara dai compagni e non dall’insegnante. L’insegnante è un regista. I ragazzi collaborando sviluppano processi di apprendimento e trovo abbastanza terroristica l’idea del non lasciarli copiare tra di loro”.

 Lei è per lasciar copiare gli alunni?

 “L’imitazione è alla base di tutto. Il Sapiens la spunta sul Neanderthal perché sa imitare, sa mantenere la memoria delle proprie scoperte. Lo supera perché è più cooperativo e ormai su questo le ricerche sono abbastanza allineate. I Premi Nobel, se ci pensa, ultimamente si danno in condivisione e questo avviene questo proprio perché la scoperta non appartiene a un elemento individuale, ma ha un’appartenenza comune collettanea e questo deve avvenire anche nella scuola. La scuola deve privilegiare il lavoro comune. Più il lavoro è comune più la scuola funziona”.

Lei parla di situazioni stimolo. Di che cosa si tratta?

 “Io non uso lo spiegone iniziale ma uso la situazione stimolo, che può essere il mostrare una foto con una donna con il burqa. E’ un esempio ma può essere anche il mosaico zodiacale. Ci dev’essere uno start che provochi una reazione nella logica di sviluppare domande donna con il burqa, o un’immagine di distruzione della guerra, il fungo atomico o un brano letterario: l’importante è evitare lo spiegone. Dalla situazione stimolo nascono le domande. Nel mio libro racconto di una maestra che porta un nido vuoto e scopre che tra i suoi alunni ci sono esperti di ornitologia perché i genitori lo sono e allora i bambini spiegano ad esempio che quel nido è di un certo uccello, la cinciarella, e portano tante altre informazioni. La maestra rimane un po’ spaesata perché pensava che i bambini non sapessero quelle cose ma a quel punto sono loro a instradarla con delle storie. Lo stimolo non dev’essere mai legato ai presupposti del docente, né alle sue aspettative, ma alle capacità dei bambini. I bambini inventano una storia meravigliosa. Ed è questo il bello di fare una scuola da vivere come una esperienza nuova ogni giorno”.

 E la matematica, come si pone lo studio della matematica, questa scienza esatta, con le situazioni stimolo?

 “Guardi, io in questo momento vedo passare tante macchine. Si può fare matematica, ad esempio, calcolando quel che si può calcolare osservando la situazione: si può misurare l’inquinamento prodotto o anche calcolare il traffico in un orario morto. Sono attività facilissime perché la matematica è di per sé legata alla realtà. Io gli algoritmi li studiavo allo scientifico. Se ci avessero detto che l’algoritmo sarebbe servito per un computer e per la tecnologia, allora sarebbe stato più facile studiare gli algoritmi. Tornando al traffico, per esempio potrei pensare di programmare il semaforo in modo che si creino meno code possibili e meno inquinamento: è un bellissimo esempio. Io lascerei fare ai ragazzi, come una sfida, e loro si attivano”.

 Il docente dovrebbe insomma partire dalle risorse che ha davanti a sé e stimolarle. E’ così?

 “Non bisogna riempire gli alunni come delle oche, vanno piuttosto tirate fuori le risorse, appunto. Le scuole si occupano di bambini che hanno una plasticità straordinaria e anche di adolescenti che hanno grandi capacità di memorizzazione e di applicazione delle conoscenze acquisite, il loro cervello è particolarmente operativo e cerca di capire subito l’opportunismo di una conoscenza. E invece il più delle volte si preferisce che mettano una crocetta. Trovo demoniache le crocette. E’ proprio un insulto all’intelligenza dei nostri alunni”.

 Che cos’è la valutazione evolutiva? Quanto sono importanti gli errori nei processi di apprendimento?

 “Ne parlo nel mio libro. La valutazione evolutiva si fonda sulla necessità di valutare i processi e non gli errori, nel senso semplice che sbagliare è necessario per poter imparare e quindi se crei una scuola in cui domina il terrore di sbagliare blocchi il desiderio di apprendimento. Si impara sbagliando, la scienza è basata su questo. La scoperta scientifica dev’essere confutabile per essere tale: la scienza ci dice che l’errore fa parte della scoperta ma è possibile che la scuola sia lontana da questo. L’errore è uno strumento di autoregolazione. I bambini sono capaci in questo, ma se tu giudichi e condanni l’errore si blocca il flusso di apprendimento”.

 Una scuola da cambiare, dice lei. Come?

 “Utilizzando quel che c’è già. Le norme che ci sono già. Tutti han detto si può fare. Il mio libro dimostra come tutto quello che dico è già contenuto nei documenti ministeriali. Magari loro parlano di valutazione formativa. Ma il concetto è quello: non cristallizzare la valutazione sulla performance ma guardare il percorso”.

 Bisogna riconoscere che le nuove generazioni di insegnanti sono più formate su questo tipo di impostazione

 È vero. E noi dobbiamo sostenere questi insegnanti perché il Ministero ha la strana idea di tornare indietro sulla valutazione alla scuola primaria. E dobbiamo sostenere anche le scuole senza voto. Il nostro convegno nasce proprio per sostenere le nuove scuole e i nuovi approcci con i loro alunni. Purtroppo, il ministro fa questo azzardo di volere ripristinare i giudizi alla primaria. Io spero che con la legge sull’autonomia ogni istituto si emancipi dalle istanze dirigistiche che hanno rovinato la scuola”.

 C’è un eccesso di centralismo secondo lei?

 “Sì, c’è un eccesso nazionalistico, siamo una scuola centrata su Roma. E’ difficile trovarla in Francia e in altri Paesi. Quando cerco una scuola tedesca, mi rispondono che dipende dai Land, se la cerco in Svizzera: dipende dai Cantoni, anche in Francia e in Olanda è così. Invece in Italia è tutto centralizzato. Pensare a un’azienda con un capo che dirige da Roma un milione di persone è ridicolo. L’autonomia è importante: può consentire progetti, scelte, processi di assunzione più virtuosi, si può permettere un uso dell’orario scolastico finalmente emancipato dal mito dell’ora di lezione. Già adesso gli insegnanti lavorano ben oltre le 18 ore settimanali, o le 24 alla primaria. Vogliamo finalmente uscire da questo incubo gentiliano secondo cui il lavoro dell’insegnante si esaurisce nell’ora di lezione come si legge nel contratto? Magari si portano il lavoro a casa. Basterebbe riconoscere che un docente lavora almeno 30 ore e stabilire di conseguenza che dev’essere essere pagato per 30 ore perché è lavoro di prestigio. È falso che si lavori 18 o 24 ore, ma questo serve per cristallizzare l’idea della materia e della lezione. E della campanella”.

 Orizzonte Scuola

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I BAMBINI GIOCANO ALLA GUERRA


 "I bambini giocano alla guerra.

E’ raro che giochino alla pace

perché gli adulti

da sempre fanno la guerra,

tu fai “pum” e ridi;

il soldato spara

e un altro uomo

non ride più.

E’ la guerra.

C’è un altro gioco

da inventare:

far sorridere il mondo,

non farlo piangere.

Pace vuol dire

che non a tutti piace

lo stesso gioco,

che i tuoi giocattoli

piacciono anche

agli altri bimbi

che spesso non ne hanno,

perché ne hai troppi tu;

che i disegni degli altri bambini

non sono dei pasticci;

che la tua mamma

non è solo tutta tua;

che tutti i bambini

sono tuoi amici.

E pace è ancora

non avere fame

non avere freddo

non avere paura."

(Bertold Brecht)


mercoledì 17 aprile 2024

INSEGNARE LA FELICITA'

 «Voglio insegnare a diventare felici» 

Compito necessario. Non solo a scuola

Caro Avvenire, sono un professore. Nella mia vita ho insegnato Ladino, Italiano, Tedesco, Filosofia, Storia, Geografia e Religione. Adesso ho il ruolo in Religione alle scuole medie e alle scuole superiori di La Villa in Val Badia. Mi diverto molto ad insegnare e mi piace. Anche se non sempre è facile. Ci vogliamo bene con gli scolari e con gli studenti. La scuola è una grande palestra di vita. Il mio traguardo più alto è quello di tentare di trasmettere a scolari e studenti gli strumenti per cercare di raggiungere la felicità.  

Christian Ferdigg

 

Caro Ferdigg, la sua lettera apre un confortante squarcio di ottimismo. Non tanto nella scuola, dove sono molti i docenti impegnati in una missione di insegnamento orientato al bene dei loro allievi, ma nell’intera società. Chi ha oggi l’ambizione di avvicinare la felicità? Chi ha il coraggio di dire che svolge un lavoro gratificante senza accodarsi al clima di lamentela e rivendicazione che viene veicolato da molti canali di comunicazione e finisce per contagiarci quasi tutti?

Conoscendo bene la Val Badia e La Villa in particolare, mi verrebbe da dire che lo splendido ambiente dolomitico contribuisce ad alimentare il suo ottimismo. Ma sarebbe riduttivo.

C’è una comunità, unita anche dalla lingua antica e tuttora coltivata, che tiene vive le proprie radici, eppure non è per nulla chiusa nel passato. Il Tru di artisc, Il sentiero degli artisti, che parte dal paese, è una galleria a cielo aperto con opere di autori locali che guardano alla contemporaneità e si abbina a testi poetici in lingua ladina, testimonianza di un equilibrio fra tradizione e sperimentazione. Lungo il percorso anche una biblioteca distribuita, per libera consultazione. Una gioia per i turisti che la sanno apprezzare, e il simbolo di una ricchezza umana e spirituale per i residenti. 

Nell’insegnare la Religione, caro Ferdigg, forse può toccare più facilmente con i suoi ragazzi le corde della bellezza e della natura. Ma non necessariamente sarà più agevole conquistare i cuori dei giovani, che sono come ormai dappertutto attirati da messaggi rapidi, semplificati e, apparentemente, più accattivanti.

Penso però che non dobbiamo rassegnarci e, anzi, continuare a mirare in alto, come lei dice, verso un traguardo ambizioso, perché se ci fissiamo obiettivi minimi già in partenza non otterremo nulla di grande. Recentemente, una collega mi parlava delle difficoltà che molti genitori hanno nell’accompagnare i propri figli nella fede dopo il percorso dell’iniziazione cristiana. 

Un compito oggi diventato arduo, in parte per la distanza tra i linguaggi sincopati della comunicazione giovanile e i riti sedimentati nei secoli della Chiesa. Servono quindi educatori capaci di trasmettere l’anelito alla felicità a una generazione che spesso si dichiara ansiosa, insicura, quando non spaventata dal futuro, e di certo distratta fra troppi stimoli. Insegnanti che non hanno paura di dire che siamo chiamati a una felicità più grande se abbiamo il coraggio di accettare una sfida d’amore. 

Senza imporre, ma offrendo gli strumenti e dando una limpida testimonianza.

www.avvenire.it

 

 

IL PATRIARCA DI OCCIDENTE

 


 

di ENZO BIANCHI

 

Nelle chiese cristiane e dunque anche nella chiesa cattolica succedono fatti, si compiono azioni che non sembrano interessare i lettori dei nostri giornali e perciò non trovano né spazio, né narrazione, né se ne intravvede il significato. E tuttavia qualche volta quasi in silenzio si compiono atti che sono molto importanti nel dialogo tra le chiese e nella possibile condivisione del loro stare nel mondo in mezzo all’umanità.

Il Vescovo di Roma, lo si sa, abbonda di titoli che ne vogliono celebrare la dignità. Questi appaiono nelle prime pagine dell’Annuario Pontificio (un organo informativo pubblicato ogni anno dalla Santa Sede) e di conseguenza nei documenti più solenni: Vicario di Cristo, Successore del Principe degli Apostoli, Sommo Pontefice della Chiesa Universale, Patriarca d’Occidente, Primate d’Italia, Arcivescovo e Metropolita della Provincia romana, Sovrano dello Stato della città del Vaticano... 

Nell’attuale Annuario vengono detti “titoli storici” per significare che sono legati alle vicende storiche e non sono originati dal Vangelo. Risuona perciò un po’ stonato che dopo tutti questi titoli storici appaia quello vero, il più appropriato, usato da Papa Gregorio Magno, che definisce il Papa “Servo dei servi di Dio”. Ma è pur vero che nella gerarchia ecclesiastica i titoli contano, soprattutto quelli che sono riconosciuti anche da altre chiese non cattoliche. Tale il titolo di Patriarca dell’Occidente perché i canali ecumenici avevano definito il Sistema di governo della chiesa cristiana come “pentarchia”, cioè governo dei cinque patriarchi che si affacciavano sul Mediterraneo: Gerusalemme, Alessandria, Antiochia, Roma, Costantinopoli. 

Purtroppo, Benedetto XVI nel 2006, spinto da quanti vedevano nel titolo di Patriarca d’Occidente una riduzione nei confronti del primato universale del vescovo di Roma, fece cadere questo titolo. 

Grande fu la meraviglia delle chiese ortodosse che vissero il fatto come un ulteriore distacco di Roma dalla sinfonia del primo millennio e giudicarono questa omissione anti ecumenica. Purtroppo, il Pontificio Consiglio dell’unità di allora giustificò questo provvedimento. Ma Papa Francesco, che ha ascoltato i desideri delle chiese ortodosse e di quanti lavorano per l’unità della chiesa, fin dall’inizio del suo papato ha messo in evidenza il titolo di Vescovo di Roma, e ora ha reintrodotto quello di Patriarca d’Occidente, dando inizio a un processo che riconfigura la chiesa latina come Patriarcato d’Occidente, in cui il primato papale potrebbe essere esercitato in forma non di giurisdizione ma di comunione con le chiese ortodosse. 

Papa Francesco ha ascoltato, ha scelto la via evangelica delle chiese sorelle. Questi gesti mostrano un’attenzione a ciò che ferisce o porta gioia ai fratelli non cattolici: perché solo se le chiese iniziano a camminare nel futuro consultandosi, comprendendosi da vere sorelle, si cammina verso l’unità a favore di tutta l’umanità.


Alzogliocchiversoilcielo


 

 

UN SAPERE CHE ILLUMINA


AL DI LA’ DELLA BUROCRAZIA

 E DELLA RIPETIZIONE

 

-         di Massimo Recalcati

-          

L’annuale riapertura delle scuole, che avverrà il prossimo settembre, appartiene ad un rituale sociale di cui tendiamo ad ignorare l'importanza assimilandolo a un fenomeno della natura come fosse il ciclo inesorabile delle stagioni. A rafforzare questa assimilazione è la dimensione della Scuola come un dispositivo burocratico sempre più lontano dalla vita vera. Le norme grigie che strutturano il tempo scolastico (calendari, riunioni, programmi, valutazioni, ecc.) favoriscono la sua rappresentazione come una istituzione condannata a una ripetizione senza sorpresa. 

Un peso al collo o una condanna nel vissuto di molti studenti.

Una incombenza necessaria in quello di molti insegnanti. Il processo di istituzionalizzazione della Scuola tende infatti a consumare anche i migliori.  È quella che ho definito altrove l'anima grigia dei dossier, il feticismo del numero, l'assillo della quantificazione. Il suo prodotto è sotto gli occhi di tutti. Dal lato degli allievi e degli insegnanti troviamo egualmente apatia, delusione, noia, frustrazione. A conferma che il sapere scolastico è un sapere separato dal mondo reale, un cumulo di informazioni astratte, fine a se stesse, una passione triste. Questa riduzione del sapere a un sapere morto scoraggia l'entusiasmo dell'apprendimento e ribadisce la sua separazione dalla vita.

Apprendere, perché?

A cosa serve apprendere, studiare, sapere se poi l'impatto con la vita ne rivelerebbe fatalmente l'inutilità? La formazione scolastica sarebbe allora una perdita di tempo, un ritardare inutilmente l'inizio dell'attività lavorativa, come sostengono anche noti imprenditori del nostro paese?  Dovremmo sempre, oggi più che mai, contro discorsi simili, ricordare la centralità della scuola non tanto come luogo di accumulo di informazioni, ma come luogo insostituibile di formazione. L'esperienza della Scuola non è solo esperienza di una routine mortifera, ma anche della luce del sapere: il sapere non è un libro morto, ma un libro vivo, non è una passione triste ma una passione erotica.

Testimoni di luce

Ma questa luce deve essere testimoniata da chi insegna. Il che dovrebbe significare che non c'è separazione tra gli effetti educativi di una formazione e quelli cognitivi di una istruzione, che educazione e istruzione, nella pratica didattica, sono due facce della stessa medaglia.  Mentre il discorso cinico contemporaneo sostiene che la vera vita sia fuori dalla Scuola, che essa non abbia alcun rapporto con il sapere, il lavoro dell'insegnante dovrebbe essere quello di mantenere il sapere strettamente legato alla vita. Perché, come ricordava Wittgenstein, sono i limiti del mio linguaggio a significare i limiti del mio mondo. Dunque, più il desiderio di sapere si irrobustisce, acquista forza, energia, slancio, più l'apertura del nostro mondo si allarga. Tuttavia, garantire questa testimonianza non è una impresa facile. Come si resiste all'usura della ripetizione che inevitabilmente ogni insegnamento scolastico porta con sé? Come si fronteggia il processo di istituzionalizzazione in modo tale che il sapere trasmesso resti un sapere vivo e non morto? Problema reso ancora più complicato dal fatto che le nuove generazioni tendono ad allontanarsi dalla pratica della lettura e dallo sforzo che comporta uno studio sistematico.

Erosione del desiderio

La distrazione non è solo una qualità psicologica sempre più diffusa tra gli allievi, ma una tendenza più generale che esprime una cifra di fondo del nostro tempo. Distrarsi è l'effetto di una erosione del desiderio che impedisce di restare prossimi alla cosa. In certi casi la distrazione può essere una difesa da un sapere che viene proposto senza alcun desiderio. In quel caso è una legittima difesa. Ma non può distrarsi chi suona un brano musicale o chi studia un libro di matematica. Non può distrarsi chi spiega le strutture grammaticali di una lingua o la deriva dei continenti. L'esperienza della luce richiede sempre dedizione, cura, attenzione. È quella che molti hanno avuto la fortuna di incontrare nei propri maestri. Diversamente, la distrazione svia da ogni possibile cura. Significa passare da una cosa all'altra svuotandole in egual misura di valore. È la dimensione anti-epistemica della curiosità senza spessore che oggi spopola sui social. Ma la distrazione non deve essere vista semplicemente come un atteggiamento soggettivo colpevolmente svagato, ma come l'effetto dell'inclinazione iperattiva di fondo del nostro tempo.

Riflettere, non consumare

Consumare le informazioni senza dedicare tempo alla riflessione, distruggere la possibilità dell'esperienza attraverso il moltiplicarsi delle impressioni. Ecco la testimonianza difficile a cui sono tenuti i nostri insegnanti. Dare prova di una concentrazione che non sia una forma ottusa del rigore, ma una cura. Essere concentrati sulla propria pratica è, del resto, la sola salvezza possibile per non cadere in una ripetizione scolastica del sapere che stroncherebbe anche gli spiriti più nobili. È la solitudine inevitabile che accompagna ogni insegnante: restare concentrati sul proprio lavoro, restare prossimi alla cosa, non lasciarsi distrarre dai rumori del mondo.

 

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PINOCCHIO e IL CONIND


IL SEGRETO 

PER

 RIUSCIRE


-       -   di Alessandro D’Avenia

 

Sulle fatiche degli attuali adolescenti descritte in un recente Ultimo Banco un lettore mi scrive: “Ho 73 anni, la mia generazione non ha avuto questi problemi. Io studiavo, una parte di tempo libero l'impiegavo per i divertimenti, l'altra parte ad aiutare mio padre nei nostri vigneti e cantina annessa. Potevo anche esimermi ma lo facevo volentieri, come facevano i miei coetanei con i genitori agricoltori, artigiani o commercianti. E io e i miei amici siamo cresciuti senza problemi esistenziali. Ora mi chiedo e Le chiedo: è possibile che questi problemi dei giovani siano dovuti all'aver trascorso l'adolescenza nella bambagia, troppo coccolati e sempre esauditi dai genitori? Quando qualche padre mi racconta di problemi esistenziali del figlio rispondo: “Fai lavorare tuo figlio”. Come fece un mio amico, titolare di una vetreria con una quarantina di dipendenti, con il figlio che immaginava di dirigere subito l’azienda; invece, il padre lo mise alla catena di lavorazione vetri dicendogli: “Se vuoi comandare devi conoscere il mestiere di vetraio”. È moralismo generazionale, boomer contro generazione Z, con autoassoluzione ottenuta dando la colpa ai genitori (gen X o Y che però sono figlie dei boomer) o c'è altro? Avere 18 anni nel 1969 è lo stesso di averli nel 2024? “

 I problemi esistenziali di cui si parla nella lettera, in misura e modi diversi, sono toccati a tutti nella storia umana. Perché? Esistenziale è l'aggettivo derivante da esistenza (latino ex-sisto: porsi fuori), quindi esistere è: uscire, venire al mondo. Infatti, le storie, dall'Odissea a Pinocchio narrano di qualcuno che affronta il faticoso viaggio verso il compimento: vivere è (ri-)uscire. Se esistere, che è nascere del tutto, diventa un regredire, allora qualcosa manca alla (ri-)uscita, cioè al rapporto tra evoluzione (natura) e iniziazione (cultura). Che vuol dire?

La natura in millenni ha fatto sì che la maturazione abbia un ritmo preciso: la plasticità del cervello, che è in tutto il corpo, è esplosiva nei primi anni di vita e poi nella pre- e adolescenza, con un rallentamento in mezzo (le elementari) utile a consolidare, di quanto acquisito nei primi sei anni, solo ciò che è necessario a sopravvivere. Ma che differenza c'è tra l'esplorazione infantile (la mano nella presa) e quella adolescenziale (la mano sulle chiavi di casa)?

Lo scopo. Il bambino deve scoprire il necessario a stare al mondo (essere amato, camminare, lavarsi, parlare, giocare...), i limiti entro cui la vita fiorisce e oltre i quali si distrugge. Il pre- e adolescente invece può generare vita in proprio, il corpo-cervello, impregnato in ogni cellula dall'eros, ha la spinta per uscire di casa e farne una propria. Questa nuova curiosità esplorativa serve a far esperienza di sé senza il copione dettato dai genitori, per scoprire a che cosa si è chiamati, lasciare il nido per costruirne uno nuovo. Se l'infanzia è fatta per imparare a uscire dal grembo, l'adolescenza per imparare a uscire da casa. Nella prima lo scopo è «stare al mondo che c'è», nella seconda è «fare un mondo nuovo». Attorno ai 20 anni il cervello-corpo rallenta di nuovo (fino alla fine dei giorni) e si concentra per portare a compimento la propria originalità (dare origine a).

L'educazione del bambino-adolescente incanala l'energia evolutiva attraverso una iniziazione. Tutte le culture, antiche e moderne, con le loro agenzie educative strutturano infatti pratiche formative in base al modello di uomo/donna a cui mirano e che culminano in un rito di passaggio: l'ingresso nell'età adulta attraverso una «morte» rituale. Porto due esempi illustri della nostra tradizione, anche se ce ne sono per ogni parte del mondo. Ulisse per entrare nel mondo adulto deve affrontare la caccia al cinghiale in cui, rischiando la vita, si procura l'indelebile cicatrice grazie alla quale la sua nutrice, 20 anni dopo, lo riconoscerà. Cristo a 12 anni, in visita a Gerusalemme con i genitori, si allontana da loro ai quali, quando lo ritrovano, angosciati, dopo tre giorni, risponde: «Perché mi cercavate? Non sapevate che devo compiere le cose del Padre mio?». Un'altra appartenenza, un'altra casa da fare. L'iniziazione oggi è caotica e inefficace: il bambino viene adultizzato e l'adolescente infantilizzato.

Inoltre, i riti di passaggio sono esangui: esame di maturità e forse la patente... quel che resta di un passaggio «esistenziale» ridotto al fare lavorativo (nessuna pratica di cura di sé, degli altri, della comunità) e trasformato in faraoniche feste di 18 anni. Ma fare una casa nuova e che stia in piedi è molto di più, casa è infatti una vita fondata su: a) conoscenza di se stessi (capacità e limiti), b) ruolo creativo per la comunità attraverso un lavoro il più possibile rispondente alle proprie attitudini (vocazione), c) relazioni buone (coppia, amicizia e cittadinanza).

L'iniziazione deve quindi essere: a) personale b) vocazionale c) relazionale. Non basta lamentarsi se i genitori oggi sono più o meno permissivi, perché è un'intera cultura a non fornire un'educazione capace di trasformare l'energia vitale in promessa di futuro, forse perché quel futuro, con i suoi comportamenti, se lo è mangiato, in Italia proprio a partire dall'ultimo quarto del XX secolo, come dimostra Luca Ricolfi in La società signorile di massa. Non riusciamo a (r-)innovare i processi educativi perché continuiamo a improvvisarli o a ispirarli a modelli inadeguati. Un esempio: la nostra scuola è la stessa di cento anni fa, con banchi fissi e studenti seduti 5-6 ore al giorno. Poteva andar bene per chi doveva essere alfabetizzato e messo dietro una scrivania, oggi non più.

Al tempo dell'autore della lettera le pratiche descritte (studio, passioni, relazioni, lavoro) offrivano un'esperienza di mondo sufficiente a (ri-)uscire, tutte le possibilità erano aperte. Oggi? Le tappe dell'età evolutiva non sono cambiate, il cervello-corpo continua a dare la spinta «esistenziale», ma l'iniziazione è inefficace e/o desincronizzata. Gli adolescenti sono smarriti: il corpo-cervello li spinge a uscire, ma loro non sanno verso dove.

Il CONIND e Pinocchio. C'è un virus culturale che corrode l'iniziazione e che chiamo CONIND: il COnsumismo che scambia la vita felice con la vita piena, il NIchilismo che azzera qualsiasi scopo o risposta ai perché, l'INDividualismo che appiattisce la socialità all'usarsi. Questo virus ai ragazzi lo abbiamo regalato noi. Nel finale del Pinocchio di Collodi non è il legno a diventare carne come nella semplificazione disneyana, infatti il Pinocchio di carne chiede: «“E il vecchio Pinocchio di legno dove si sarà nascosto?”. “Eccolo là”, rispose Geppetto; e gli accennò un grosso burattino appoggiato a una seggiola, col capo girato su una parte». Per (ri-)uscire nella vita bisogna far morire l'io legnoso e asservito ad aspettative e a modelli fallimentari, per far nascere il sé libero e autentico. L'educazione serve a trovare il coraggio per liberarsi dai fili: diventare sempre più liberi è il compito di una buona iniziazione, cioè capaci di ricevere il mondo, custodirlo e moltiplicarlo, liberi in latino erano i figli capaci di ereditare.

Ma quale mondo diamo in eredità? «“Levatemi una curiosità, babbino: ma come si spiega tutto questo cambiamento improvviso?” gli domandò Pinocchio saltandogli al collo e coprendolo di baci. “Questo improvviso cambiamento è tutto merito tuo”». E il lettore sa quanto è costato il cambiamento, che ogni nuova generazione, come Pinocchio, deve fare. Educare è mettere in condizione, negli anni fatti per questo, di scegliere se essere figli o burattini. Lo facciamo? Se l'iniziazione non conduce sulla soglia di questa scelta, che poi si ripresenterà periodicamente nel corso della vita e si potrà affrontare sempre alla luce della prima (ri-)uscita, è perché vogliamo «servi» non «liberi». L'energia evolutiva va sprecata e i ragazzi consegnati al sentimento del nostro tempo: la paura. Chiuso in casa, quando era fatto per uscire. Ma forse proprio il «problema esistenziale» che gli abbiamo creato, lo costringerà a (ri-)uscire.

 

Alzogliocchiversoilcielo


 

sabato 13 aprile 2024

PERCHE' SIETE TURBATI ?


III Domenica di Pasqua 

Il brano di vangelo di questa domenica è la versione di Luca del racconto di Giovanni letto la scorsa settimana.

Si possono, infatti, riconoscere elementi comuni tra i due testi: il saluto riconciliante di Gesù «Pace a voi!»; la richiesta di guardare le sue mani e i suoi piedi; l’invi(t)o finale a predicare «il perdono dei peccati».

Vi sono, tuttavia, anche delle peculiarità.

In particolare, l’evangelista Luca, oltre a mettere in evidenza la gioia dei presenti – come aveva fatto Giovanni –, sottolinea anche altre concomitanti reazioni: si dice che i presenti erano «sconvolti e pieni di paura» e «per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore».

Sentimenti contrastanti abitano, dunque, i discepoli dopo la risurrezione: gioia, certo. Ma una gioia per la quale «non credevano» e poi paura, tanta paura (erano «sconvolti e pieni di paura») e turbamento. Tanto che Gesù stesso se ne accorge: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore?».

La fede nella risurrezione non è, dunque, stata immediata e nemmeno scontata.

Questo elemento non va considerato come la reazione degli uomini (limitati, goffi, sempre un po’ inadeguati davanti al divino) alla rivelazione di Dio (chiara, limpida, inequivocabile).

Il racconto della fatica di riconoscere, incontrare, relazionarsi col risorto fa ancora parte della rivelazione di Dio.

Fa ancora parte dei vangeli la narrazione del faticoso cammino dell’uomo per accedere alla comprensione, all’incontro e alla relazione col risorto.

Come a dire: non è successo quella volta e basta. Non è che i discepoli hanno fatto la fatica di credere alla risurrezione una volta per tutte, una volta per tutti. Non è che è solo loro l’esperienza dell’essere sconvolti, di avere paura, di provare gioia, di non credere, di essere atterriti e dubbiosi. Il percorso che ci descrivono non è narrato per dire: bene, noi abbiamo fatto questa fatica e ora vi consegniamo il risultato finale, la fede nel risorto, prendetela per buona e state sereni.

Loro raccontano, piuttosto, il loro itinerario perché ciascuno possa percorrere il proprio.

Noi, però, non siamo tanto abituati a far questo. Abbiamo per lo più ricevuto un’educazione cattolica in cui ci hanno servito il “piatto pronto”, il “prodotto finito” e ci hanno chiesto di prenderlo per buono, di ripartire da lì, di credere a ciò che altri hanno ottenuto come portato finale del loro percorso di vita, del loro itinerario di fede.

I vangeli invece erano stati scritti perché ciascuno ripercorresse la sequela di Gesù, perché ciascuno vedesse il volto di Dio che rivelava nelle sue parole, nei suoi gesti, nella sua morte di croce… e perché ciascuno si mettesse di fronte al risorto, passando attraverso la paura, i dubbi, la gioia, la domanda inespressa su “Chi è costui? Un fantasma? Un redivivo? Un’allucinazione?”.

Per arrivare a pronunciarsi – ciascuno/a – personalmente circa la propria fede.

Alzo gli occhi verso il  cielo