giovedì 28 marzo 2024

COLTIVARE LA PAZIENZA


La pazienza 

è 

la “vitamina

 essenziale” 

del cristiano

All’udienza generale, il Papa dedica la catechesi alla virtù che ha come radice l'amore con cui Cristo risponde alle sofferenze: non c’è cosa, per quanto piccola, purché sopportata per amore di Dio, che passi senza ricompensa presso Dio

 


-         di Tiziana Campisi - Città del Vaticano

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La pazienza è quella virtù che Gesù ci mostra nella Passione, “con mitezza e mansuetudine”, infatti, “accetta di essere arrestato, schiaffeggiato e condannato ingiustamente”. Alla vigilia del Triduo Pasquale, il Papa lo spiega nella sua terza catechesi dedicata alle virtù, all’udienza generale spostata per via della pioggia da Piazza San Pietro, dov'era programmata, in Aula Paolo VI. "È vero che sarete un po’ ammucchiati, ma almeno saremo non bagnati", scherza Francesco all'inizio, affrontando poi il testo della catechesi in prima persona, senza l'ausilio di un lettore come avvenuto nelle ultime settimane per via della bronchite che lo aveva colpito.

I Vangeli, osserva il Papa, raccontano che Cristo “davanti a Pilato non recrimina; sopporta gli insulti, gli sputi e la flagellazione dei soldati; porta il peso della croce; perdona chi lo inchioda al legno e sulla croce non risponde alle provocazioni, ma offre misericordia”; tutto questo, sottolinea Francesco, ci offre un insegnamento.

La pazienza di Gesù non consiste in una stoica resistenza nel soffrire, ma è il frutto di un amore più grande.

Il primo tratto di ogni grande amore

La Bibbia ci rivela più volte che “Dio, di fronte alla nostra infedeltà, si mostra ‘lento all’ira’”, fa notare il Papa, e non sfoga “il proprio disgusto per il male e il peccato dell’uomo”, semmai è “pronto ogni volta a ricominciare da capo con infinita pazienza”. E se per San Paolo questo proporre il perdono davanti al peccato “è il primo tratto dell’amore di Dio”, per Francesco è anche “il primo tratto di ogni grande amore, che sa rispondere al male col bene, che non si chiude nella rabbia e nello sconforto, ma persevera e rilancia. La pazienza che ricomincia”.

Alla radice della pazienza c’è l’amore, come dice Sant’Agostino: “Uno è tanto più forte a sopportare qualunque male, quanto in lui è maggiore l’amore di Dio”.

Una virtù di cui si è spesso carenti

Dunque, testimonia l’amore di Gesù il “cristiano paziente”, sottolinea Francesco, che richiama anche l’esempio di “mamme e papà, lavoratori, medici e infermieri, ammalati che ogni giorno, nel nascondimento, abbelliscono il mondo con una santa pazienza”, virtù che non sempre si possiede.

Siamo spesso carenti di pazienza. Nel quotidiano siamo impazienti, tutti. Ne abbiamo bisogno come della “vitamina essenziale” per andare avanti, ma ci viene istintivo spazientirci - è un istinto spazientirci - e rispondere al male col male: è difficile stare calmi, controllare l’istinto, trattenere brutte risposte, disinnescare litigi e conflitti in famiglia, al lavoro, o nella comunità cristiana. Subito viene la risposta; non siamo capaci di stare pazienti.

Andare controcorrente e attendere

Ma come essere pazienti? Per il Papa occorre “andare controcorrente rispetto alla mentalità oggi diffusa, in cui dominano la fretta e il ‘tutto e subito’; dove, anziché attendere che maturino le situazioni, si spremono le persone, pretendendo che cambino all’istante”. Tra l'altro fretta e impazienza sono "nemiche della vita spirituale", avverte Francesco, Dio, invece "è amore, e chi ama non si stanca, non è irascibile, non dà ultimatum. Dio è paziente, Dio sa attendere”.

Assimilare la pazienza del Crocifisso

Per accrescere, poi, la pazienza, che è “un frutto dello Spirito Santo”, occorre pregare e chiederla “allo Spirito di Cristo”, raccomanda il Papa.

Specialmente in questi giorni ci farà bene contemplare il Crocifisso per assimilarne la pazienza. Un bell’esercizio è anche quello di portare a Lui le persone più fastidiose, domandando la grazia di mettere in pratica nei loro riguardi quell’opera di misericordia tanto nota quanto disattesa: sopportare pazientemente le persone moleste. 

Con lo sguardo di Dio

Non è facile tollerare coloro che sono molesti, riconosce il Pontefice, ma nella preghiera si può chiedere di guardarli "con compassione, con lo sguardo di Dio, sapendo distinguere i loro volti dai loro sbagli".

Noi abbiamo l’abitudine di catalogare le persone con gli sbagli che fanno. No, non è buono questo. Cerchiamo le persone per i loro volti, per il loro cuore e non per gli sbagli!

Ampliare lo sguardo

Infine, la pazienza va coltivata, e per questo “è bene ampliare lo sguardo”, ad esempio non restringendolo soltanto ai propri guai, è il suggerimento di Francesco, ma volgendolo alle sofferenze più gravi degli altri per imparare a sopportare le proprie, come invita a fare l’Imitazione di Cristo, “ricordando che ‘non c’è cosa, per quanto piccola, purché sopportata per amore di Dio, che passi senza ricompensa presso Dio’”. "Pazienza è saper sopportare i mali", conclude il Papa, e quando ci si sente “nella morsa della prova”, c'è da aprirsi fiduciosamente e “con speranza alla novità di Dio”, perché Lui “non lascia deluse le nostre attese”.

 

Vatican News



  

lunedì 25 marzo 2024

GIOVANI, FORMAZIONE, SVILUPPO

 

Formazione

 dei giovani


e

obiettivi 

di sviluppo sostenibile


Nel Dizionario della Dottrina sociale della Chiesa, Simona Sandrini si sofferma sui traguardi dell’Agenda ONU 2030 insistendo sulla necessità di dar vita a percorsi di formazione che arrivino a creare reti solidali e progetti di fraternità

 

-         di Simona Sandrini*

-          

Grande è l’impegno oggi di educatori, formatori, pedagogisti e insegnanti per alfabetizzare le giovani generazioni sui molteplici temi dell’Agenda ONU 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. Occorre pensare ai cambiamenti dell’assetto ambientale e politico-economico-sociale anche e soprattutto in riferimento all’esperienza personale: ossia, educare le nuove generazioni a porre in stretta correlazione le variazioni auspicate nel mondo esterno e quelle che possono realizzare nella propria sfera di vita. Muovere verso società eque, solidali e durature significa, infatti, fare affidamento su nuove generazioni giuste, generose e rispettose, che adottino per ciascun obiettivo di sviluppo sostenibile stili di pensiero e azione, di vita e professione, di comunicazione, produzione e consumo orientati al benessere come fraternità e al bene comune come garanzia di dignità personale. Dal punto di vista pedagogico ciò si traduce nel formare non solo giovani “iper-skillati” per competenze specialistiche, in grado di realizzare traguardi di progresso funzionale sulla scia dell’Agenda, ma anche dar vita a percorsi di formazione capaci di generare il desiderio di avverare famiglie solidali, reti territoriali, comunità scolastiche, economie di comunione, imprese sociali, progetti di rispetto, fraternità e pace.

 Le giovani generazioni sono portatrici di un potenziale di sviluppo che coincide con il bene di tutti e di ciascuno: chi meglio della gioventù, per le caratteristiche di vivacità, creatività e apertura al nuovo, potrebbe accompagnare con motivazione il processo trasformativo della transizione ecologica? Ai giovani spetta un compito immaginativo, al limite tra volere e dovere, in cui, all’appiattimento sul dato di realtà e sulle fatiche della comunità di vita nel pianeta, si sostituisca un anelito di speranza creativa, un tocco di libertà immaginativa, che lasci intravedere scenari futuri di bellezza proprio a partire dalle fragilità del progresso per come è stato concepito fino ad ora. I giovani, afferma Papa Francesco, sono «l’adesso di Dio»: «essere giovani, più che un’età, è uno stato del cuore» (Christus vivit, 2019, 34). Ancora: «abbiamo bisogno, piuttosto, di progetti che li rafforzino, li accompagnino e li proiettino verso l’incontro con gli altri, il servizio generoso, la missione» (Christus vivit, 30). La fraternità (Fratelli tutti, 2020) diviene orizzonte formativo in esperienze di partecipazione, condivisione e collaborazione.

 *Docente di Progettazione e coordinamento pedagogico presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore

 Vatican News

sabato 23 marzo 2024

OSANNA !

 

24 marzo 2024

Domenica delle Palme

 Mc 11, 1-10

Commento di S.B. Card. Puierbattista Pizzaballa, Patriarca di Gerusalemme.


Con la Domenica delle Palme entriamo nella Settimana Santa, nella celebrazione dell’ora in cui Gesù rivela definitivamente il mistero dell’amore del Padre per l’umanità.

 Arriviamo a questa soglia dopo aver percorso le diverse tappe della Quaresima.

E l’abbiamo fatto con questo sguardo, quello di chi si lascia stupire dalla manifestazione di un Dio “capovolto”, un Dio diverso e lontano da ogni possibile forma di potere, di forza, di grandezza.

 Il Vangelo di oggi (Mc 11, 1-10) ci porta in questa stessa direzione.

 La particolarità di questo brano è che se da una parte racconta l’ingresso trionfale di Gesù in Gerusalemme, dall’altra indugia a lungo su particolari apparentemente secondari.

 Ben sette versetti su dieci (Mc 11,1-7) sono occupati dalla descrizione dei preparativi per l’ingresso.

 Fino a quando l’ora non era ancora giunta, nessuno era riuscito a mettere le mani su Gesù (Gv 7,30). Ma nel momento in cui quest’ora giunge, niente può più fermarlo, e Lui stesso si dispone a preparare l’evento: manda due discepoli in un villaggio a prelevare un puledro, prevede che qualcuno farà obiezione, suggerisce le parole da dire…Insomma, una preparazione fatta con grande cura, senza che nulla sia lasciato al caso.

 La stessa cosa Gesù farà più avanti (Mc 14,12-16), per l’ultima cena che vorrà vivere con i suoi: manderà due discepoli in città, dove troveranno un uomo con una brocca, chiederà loro di seguirlo, affiderà loro le parole da dire…

Gesù prepara la sua morte e non la prepara da solo, come da solo non aveva vissuto la sua vita: i suoi discepoli avranno parte a questa preparazione.

 Ma perché questa attenzione ai preparativi?

 Gesù prepara la sua morte e dispone i fatti in modo che sia chiaro il significato che questa morte dovrà avere.

 Con l’ultima cena cercherà di dire ai suoi discepoli che la sua morte non sarà un fallimento, né la fine di tutto, ma piuttosto il culmine di una vita donata per amore. E che questo dono sarà come un pane spezzato, sarà il nutrimento e la forza per il loro nuovo cammino, per la loro comunione fraterna.

 L’ingresso in Gerusalemme è preparato con cura da Gesù perché sia chiaro lo stile messianico che Gesù ha scelto e a cui rimane fedele fino alla fine.

 Siccome è re, Gesù può entrare a Gerusalemme su una cavalcatura e non a piedi, come era previsto.

 Siccome è re, può prendere la cavalcatura da uno dei suoi sudditi.

 Ma siccome è un re mite, la sua cavalcatura sarà quella dei servi, e non quella dei potenti.

 E siccome è un re che viene per donare, e non per usurpare, chiede una cavalcatura a prestito, ma si premura di dire che la restituirà subito (Mc 11,3).

 Inoltre, per gli abitanti di Gerusalemme e per i pellegrini saliti per la festa, sarà evidente il richiamo dei gesti di Gesù alla profezia di Zaccaria (Zc 9,9-10), che annuncia l’arrivo di un re pacifico, mite, un re che entra in città proprio su un puledro per annunciare la pace non solo a Gerusalemme, ma a tutte le nazioni.

 Per questo il puledro su cui Gesù salirà può essere slegato: il verbo ritorna 5 volte in pochi versetti (Mc 11,2.4.5), per dire che la profezia è sciolta, è compiuta, ed è giunto finalmente un re capace di portare la pace.

 Marco precisa che su questo puledro nessuno era ancora salito (Mc 11,2): finora, infatti, nessun re era stato un re di pace.

 Abbiamo visto che il puledro, slegato e utilizzato da Gesù, verrà restituito subito. Subito è un avverbio che l’evangelista Marco ha usato molte volte nel suo Vangelo.

 Siccome il tempo è compiuto (Mc 1,15), la salvezza è qui, è presente. Per questo motivo, quando Gesù incontra qualcuno, subito accade qualcosa: subito la lebbra sparisce (Mc 1,42), subito il paralitico si alza (Mc 2,12), subito la lingua si scioglie (Mc 7,35). Tutto in Marco è affrettato, è presente, tranne una cosa, ovvero il riconoscimento di Gesù come Messia: quando le persone guarite, o i demoni, vogliono proclamare che Gesù è Figlio di Dio, Gesù ritarda questo momento, lo rimanda, perché non gli venga attribuito un significato diverso da quello che Lui vuole dargli.

 Ora siamo alla fine del Vangelo, ed è tempo di rivelare il giusto significato della sua vita.

E ciò che era rimandato, ovvero la rivelazione piena del Messia come servo sofferente, ora è un fatto presente, per cui il puledro potrà essere riportato subito al suo legittimo proprietario: la rivelazione è compiuta.

 Marco utilizzerà questo avverbio solo altre due volte: per il tradimento di Giuda (Mc 14,45) e per il rinnegamento di Pietro (Mc 14,75): di fronte allo scandalo di questa rivelazione, c’è la reazione dell’uomo, che subito si chiude all’idea di un Dio sconfitto e sofferente.

 Così sarà anche per la folla di Gerusalemme: subito accoglie l’ingresso di Gesù con gioia, ma subito dopo questa stessa folla griderà per metterlo a morte (Mc 15,11-14), proprio come coloro che assomigliano al terreno sassoso della parabola, che quando ascoltano la Parola subito l’accolgono (Mc 4,16), ma nella difficoltà subito vengono meno (Mc 4,17).

Nella sua ora, Gesù rivela di essere un Messia che si fa debole per amore.

 Non elimina la fragilità e la debolezza, ma la rende il luogo della massima rivelazione del suo amore.

 Per tutti noi, incostanti e incapaci di lasciarci amare così, Gesù entra in Gerusalemme, senza tirarsi indietro, chiedendoci solo di alzare gli occhi per vedere fino a che punto arriva l’amore del Re che ha scelto la pace.

 + Pierbattista

https://www.lpj.org/it/news/meditation-of-hb-card-pizzaballa-latin-patriarch-of-jerusalem-17


sabato 16 marzo 2024

BAMBINI TRANS e IDENTITA' di GENERE



 L’identità di genere non si decide a tavolino

 Londra sospende la triptorelina per bloccare lo sviluppo puberale, Milano liberalizza il cambio di genere in Comune, a Roma prevale la ricerca

 

-         di Paola Binetti

 

“Stop alle prescrizioni del farmaco utilizzato nei centri che si occupano di disforia di genere per la sospensione dello sviluppo puberale in casi di pubertà precoce. Lo ha deciso il Servizio sanitario inglese (NHS)”. Stiamo parlando di triptorelina e la notizia, che appare netta e chiara sulla maggioranza dei giornali italiani, invita ad una riflessione molto seria, per molteplici aspetti. Vale la pena provare ad evidenziarne almeno alcuni.

La disforia di genere sembra decisamente in aumento e a Roma sia l’Università Cattolica che il Bambino Gesù hanno deciso di attivare dei servizi clinici che se ne occupano, impegnando professionisti di alta qualità e attivando contemporaneamente un centro di studio e di ricerca. L’approccio è evidentemente clinico e per affrontare il problema sembra richiedere un intervento decisamente specialistico.

A Milano, quasi contemporaneamente, l’8 marzo scorso, mentre nelle piazze sfilavano i cortei per festeggiare la Giornata internazionale della donna, il Comune ha diramato una circolare contenente le linee guida per l’attivazione e la gestione dell’identità alias a favore dei dipendenti che ne fanno richiesta. La delibera era stata approvata a fine 2023, il provvedimento era entrato in vigore dal 1° gennaio 2024 e le linee guida sulla gestione delle carriere alias nello stesso Comune sono state emanate l’8 marzo. Un iter velocissimo per chi conosce i tempi della burocrazia, reso necessario per favorire “la piena inclusione lavorativa di tutti coloro che intendono modificare nome e identità nell’espressione della propria autodeterminazione di genere, così come previsto dal contratto collettivo nazionale di riferimento”. Secondo il Comune di Milano quindi tutti questi passaggi possono essere fatti senza alcuna diagnosi o perizie mediche, in coerenza con gli orientamenti dell’OMS.

La disforia di genere è comunemente definita come la profonda sofferenza secondaria all’incongruenza tra l’identità di genere e il genere assegnato alla nascita. Le persone con disforia di genere sono descritte come una popolazione psicologicamente e socialmente più vulnerabile, in particolare quando attraversano i primi stadi dello sviluppo puberale.

Tre approcci decisamente diversi e per alcuni aspetti decisamente contraddittori: in Gran Bretagna l’uso della triptorelina è sospeso, a Roma si attivano centri di diagnosi e cura della disforia di genere in due degli ospedali a più forte caratterizzazione religiosa, entrambi considerati, a diverso titolo, gli ospedali del papa, a Milano invece ognuno può definire gli standard della sua sessualità e del suo genere come meglio crede, ottenendo piena legittimazione dal Comune, senza verifiche di alcun genere. A Milano quindi il tema della disforia di genere viene cancellato con una delibera comunale e l’unico parametro di riferimento diventa: non chi sono, ma chi credo di essere e soprattutto come voglio essere considerato nel contesto in cui vivo e lavoro. A questo punto, cancellata la disforia di genere, l’uso e l’abuso della triptorelina, almeno sul piano teorico, cessano di avere un qualsiasi interesse perché oggi o domani posso dichiarami come meglio credo, senza avere bisogno di una qualsiasi documentazione. Tutto si risolve nella mia soggettività e nella mia egoreferenzialità.

Ma ovviamente non è così. Sono ancora attuali i problemi relativi al vissuto della propria sessualità e alle sue possibili contraddizioni, resta il problema degli adolescenti, davanti a fisiologici dubbi ed incertezze sul proprio orientamento e soprattutto resta il problema dell’ideologia legata ad un tema che sottrae la stessa sessualità alle sue radici biologiche, che non ne esauriscono il senso e il significato, ma indubbiamente ne sono parte integrante. La triptorelina, vale la pena ricordarlo, è un farmaco utilizzato per la sospensione dello sviluppo puberale in casi di pubertà precoce, ed è stata a lungo utilizzata per il trattamento della disforia di genere, in attesa che il soggetto decida chi voleva essere o diventare: maschio, femmina o altro. Il Servizio sanitario inglese (NHS), dopo molti anni che lo aveva autorizzato, ha deciso di interrompere le prescrizioni di routine, poiché non sono stati trovati prove sufficienti riguardo alla sicurezza o all’efficacia del farmaco. In Italia il Comitato Nazionale di Bioetica in ​​un suo documento del 2018 ne aveva raccomandato l’uso solo in casi molto circoscritti, con prudenza, con una valutazione caso per caso e l’AIFA, nel febbraio 2029, sulla scorta della valutazione data dal CNB, aveva reso il farmaco prescrivibile e completamente a carico del SSN, precisando però: “per l’impiego in casi selezionati in cui l’identità di genere (disforia di genere) con diagnosi confermata da una équipe multidisciplinare e specialistica e in cui l’assistenza psicologica, psicoterapeutica e psichiatrica non sia risolutiva”.

Una “terapia” rischiosa e ideologica

I recenti accadimenti dell’Ospedale Careggi di Firenze hanno riaperto il problema, che merita ulteriori approfondimenti. La Gran Bretagna, infatti, ha bandito l’uso della triptorelina perché il farmaco non assicura né sicurezza né efficacia. In altri termini non è in grado di ridurre i problemi comportamentali ed emotivi degli adolescenti con una sindrome di disforia di genere; resta il rischio suicidiario e non si intravvedono segno di miglioramento del funzionamento psicologico generale. Nell’autorizzazione all’uso del farmaco, sia in UK che in Italia, mancava l’indispensabile riferimento al principio di precauzione, che esige una strategia complessa nella gestione del rischio, come avviene quando in medicina non si ha una conoscenza certa, scientificamente fondata, dei potenziali effetti negativi di una determinata attività terapeutica. Nel caso della triptorelina non ci sono mai stati studi di follow up che consentano di escludere il rischio di possibili conseguenze negative sulla crescita, sulla struttura scheletrica, sull’apparato cardio-vascolare, neurologico-cerebrale e metabolico e sulla fertilità dell’adolescente trattato, comprese le conseguenze sul suo sviluppo sessuale e su quello emotivo-cognitivo che lo accompagna.

Una sperimentazione poco chiara e rischiosa

Dopo anni di somministrazione senza reali prove di efficacia, dopo la denuncia degli abusi compiuti nel Gender Identity Development Service (GIDS) della Tavistock Clinic di Londra, denunciati dal suo stesso direttore, era naturale, auspicabile, che la Gran Bretagna mettesse la parola fine ad una sperimentazione in cui il fattore ideologico superava di gran lunga gli aspetti scientifici. Lo staff della Tavistock è stato accusato di aver adottato un atteggiamento superficiale, con un incoraggiamento indiscriminato verso la prospettiva di una transizione di genere anche di fronte a casi d’incertezza tipici nell’adolescenza rispetto alla propria identità; infatti in gioco non c’è solo la triptorelina, come farmaco, attualmente ritirata dall’uso, ci sono anche le forti criticità rilevate sulla verifica del consenso informato dei pazienti ammessi ai trattamenti di transizione da un sesso all’altro e la loro consapevolezza delle conseguenze relative all’assunzione del farmaco.

Necessaria la prudenza

Quanto accaduto nel Regno Unito mostra al di fuori di ogni dubbio la prudenza necessaria nel trattamento della cosiddetta disforia di genere, per saperne di più cogliere anche le naturali incertezze dell’adolescenza e saper impostare sul piano psico-pedagogico tutta una serie di interventi volti a rafforzare l’identità complessiva del soggetto; la sua maturazione progressiva, la sua sicurezza nel prendere decisioni che lo riguardano. Il problema non si esaurisce nell’alternativa triptorelina sì o triptorelina no; ha radici più profonde che coinvolgono anche il senso antropologico della differenza dei sessi, il suo rispecchiamento nel contesto sociale attuale, in cui sembra prevalere un approccio di tipo negazionista, che invece di sottolineare la differenza e coglierne valore e significato tende a ricondurla in un anonimato relazionale che rimanda ad un profondo senso di solitudine e di isolamento.

 

Il Sussidiario

 

 

 

VALUTAZIONE e COMPETITIVITA'


 «La competizione causa l’infelicità»

 «Nella Scuola del gratuito si utilizza la “valutazione dialogica». E le famiglie sono contente»

-         


-Intervista di Paolo Ferrario

«Valutare significa “dare valore” e non “misurare”. Per questo ritengo un errore ritornare ai giudizi sintetici alla scuola primaria». Da più di vent’anni, Ferdinando Ciani, insegnante pesarese di scuola media, ha abolito i voti nelle proprie classi, preferendo quella che chiama “valutazione dialogica”, fondata sul dialogo e la collaborazione tra docente e alunno e tra scuola e famiglia. Coordinatore del progetto Scuola del gratuito, esperienza nata in seno all’associazione Papa Giovanni XXIII di don Oreste Benzi, il professor Ciani ha portato l’idea in giro per l’Italia in convegni e incontri con le scuole. Da qui è nato anche il Coordinamento delle scuole senza voto, cui oggi aderiscono decine di istituti, dalla primaria al liceo. Anzi, sottolinea Ciani, sono proprio i dirigenti delle scuole superiori a dimostrarsi tra i più interessati ad adottare questo nuovo sistema di valutazione degli studenti.

 Perché è preoccupato da una riforma che ha l’obiettivo di rendere più comprensibili i giudizi degli insegnanti?

 Ma non è così. Questa riforma è frutto di un’ideologia pedagogica che potremmo dire fondata sul bastone e la carota. Non è assolutamente giustificabile un passo indietro così repentino, dopo aver fatto un piccolo ma importante passo in avanti in questi ultimi anni. Alla primaria non c’è ancora la valutazione dialogica, ma comunque si sta portando avanti un’idea di valutazione migliore. Ora tutto ritorna in gioco. Tra l’altro, falsando il giudizio dei genitori che sono i primi ad essere soddisfatti della valutazione dialogica, la dove è applicata.

 Per quale ragione?

 Perché è molto più precisa del voto “secco”. Dice dove lo studente deve migliorare, mettendo allo stesso tempo in evidenza i punti di forza ed i passi in avanti compiuti. In altri termini, aiuta l’allievo a capire il percorso che dovrà affrontare, dando indicazioni e suggerimenti sul come farlo. Con la valutazione dialogica l’insegnante “parla” all’allievo e lo aiuta a migliorarsi. Certo, al docente è richiesto un impegno maggiore. Mettere un “5” è più semplice, richiede certamente meno tempo e uno sforzo minore, ma non aiuta l’alunno.

 Però, magari, dice alla famiglia a che punto è arrivato il proprio figlio… Assolutamente no. Ripeto: il voto non dice nulla. Davanti a un “4” la famiglia capisce solo che il ragazzo va male a scuola. Magari lo punisce, non sapendo, però, perché ha preso quel voto. Perché nessuno lo ha spiegato ai genitori. Limitarsi a mettere un voto non aiuta nessuno. L’unica strada è il dialogo e il confronto sia con lo studente che con i suoi genitori. E questo vale soprattutto per le famiglie meno attrezzate culturalmente, che più delle altre devono essere aiutate a capire che il voto non definisce il proprio figlio. È anche per questo che ritengo sbagliato un ritorno ai giudizi sintetici. Che, inevitabilmente, portano alla competizione tra studenti. Ma l’unica competizione utile è con sé stessi, per migliorarsi.

 Come si può cambiare rotta?

 Occorre uscire dalla logica del profitto, della competizione, della lotta perenne con gli altri che condanna l’essere umano all’infelicità.

 Che cosa direbbe ai politici che stanno pensando alla riforma della valutazione?

 Dovrebbero fare un bel bagno di umiltà e ascoltare le scuole e le famiglie. Che, lo ripeto ancora, in grande maggioranza promuovono la valutazione dialogica, che sostiene soprattutto gli studenti che fanno più fatica. Il mio appello alla politica è di guardare con attenzione alle tante sperimentazioni che, spontaneamente, stanno venendo avanti. Non soltanto con i bambini della scuola primaria, ma anche alle superiori, con gli studenti più grandi. Stimolando allo stesso tempo un nuovo e più proficuo rapporto con le famiglie.

 

www.avvenire.it

 

 

venerdì 15 marzo 2024

SE IL CHICCO DI GRANO NON MUORE


 V domenica di Quaresima

 - Vangelo: Giovanni 12,20-33

 

  In quel tempo 20tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c'erano anche alcuni Greci. 21Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù». 22Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. 23Gesù rispose loro: «È venuta l'ora che il Figlio dell'uomo sia glorificato. 24In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. 25Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. 26Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. 27Adesso l'anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest'ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest'ora! 28Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L'ho glorificato e lo glorificherò ancora!». 29La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». 30Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. 31Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. 32E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». 33Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.

 

-Commento di Sabino Chialà


Vi è ancora un’immagine al centro del vangelo di questa quinta domenica di quaresima, dopo quelle del tempio e del serpente: il seme che muore e dà frutto. Un’immagine che rimanda chiaramente alla Pasqua e alla vita che vince la morte, come indica l’intero capitolo da cui il nostro brano è tratto.

 La prima parte del capitolo dodicesimo, infatti, è un continuo intrecciarsi di riferimenti alla Pasqua ebraica, alla resurrezione di Lazzaro e alla morte e resurrezione di Gesù. Si apre con la menzione della festa di Pasqua (v. 1), cui segue il ricordo della resurrezione di Lazzaro (v. 1) e della sepoltura di Gesù (v. 7). Seguono un nuovo riferimento alla resurrezione di Lazzaro (v. 9), alla festa in occasione dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme (v. 12) e alla sua glorificazione, altro riferimento alla passione e resurrezione (v. 16). Infine, un nuovo riferimento alla resurrezione di Lazzaro (v. 17) è seguito da una terza menzione della festa (v. 20) e dalla parola di Gesù circa l’ora ormai giunta (v. 23), altro riferimento alla sua passione. Questo intreccio aiuta a cogliere il clima in cui vanno lette le parole di Gesù, e come i tre eventi convergono verso un medesimo annuncio: l’unitarietà della storia della salvezza, a favore dell’umanità intera.

 Il brano previsto dal lezionario per questa domenica si apre con un evento che Gesù legge come decisivo in riferimento al compimento della sua missione: “Tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa, c’erano alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsaida di Galilea, e gli chiesero: ‘Signore, vogliamo vedere Gesù’” (vv. 20-21). Si rivolgono a Filippo e questi interpella Andrea (v. 22) perché i due provengono dalla Galilea, terra di confine e dunque terra aperta alle genti e alle loro lingue e culture.

 Il desiderio dei Greci di “vedere” (v. 21) è colto da Gesù come un segno chiaro di essere giunto alla soglia del compimento: è giunta l’ora! Quell’ora era rimasta in sospeso fin dal secondo capitolo, quando a Cana Gesù, a sua madre che gli chiedeva di intervenire perché non c’era più vino, aveva risposto: “Non è ancora giunta la mia ora” (2,4), un’affermazione ripetuta ancora (cf. 7,30; 8,20). Ma adesso, proprio in questo momento, l’ora è giunta. Siamo allo spartiacque, e di qui in avanti Gesù ripeterà più volte che l’ora è giunta (cf. 12,23; 13,1; 17,1).

 I Greci, segno di universalità, desiderano vederlo. Non sono più solo i due discepoli dell’inizio del vangelo che “andarono e videro dove stava” (1,39). Ora Gesù scorge in quei Greci il desiderio delle genti, la ricerca di senso dell’umanità intera. Sente che è giunto il momento di compiere: “E’ giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo” (v. 23). Ma per questo è necessario chiarire, manifestare, di quale compimento si tratta, quale salvezza egli è venuto a portare e per quale via si realizzerà.

 Cerca dunque un’immagine con cui narrare il senso di una vita e di una missione. E trova come particolarmente adatta quella del seme: “Se il chicco di grano, caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (v. 24). Gesù raccoglie in questa immagine così semplice e feriale il senso di una intera esistenza. I vangeli Sinottici riportano vari altri utilizzi della medesima metafora, per descrivere il modo di agire della parola (cf. Mc 4,1-32). In Giovanni questo è l’unico impiego e riassume l’esistenza intera di Gesù, la Parola fatta carne (cf. Gv 1,1).

 Richiamando la debolezza e la forza del seme, Gesù intende così preparare i suoi discepoli, che presto lo vedranno appeso alla croce. Li invita a considerare come nel seme la vita nasce dalla morte. Mentre sottrarsi alla morte, porta alla solitudine dell’insensatezza. L’accettazione della morte apre al frutto e apre alla vita. Qui è tutta la logica della croce e ciò che Gesù ha cercato di vivere e annunciare nel suo ministero. È così non per banale dolorismo, ma perché non c’è altra via per la vita!

 Quella strada, però, non è tracciata solo per Gesù: è anche per i suoi discepoli di ogni tempo e luogo. Infatti, continua: “Chi ama la propria vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuol servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo” (vv. 25-26). La logica del seme dev’essere anche la logica della chiesa e di ogni comunità credente, chiamata a perdere per ritrovare, a lasciare per riottenere. Nessuno può sfuggire a questo doloroso passaggio: la vita fiorisce solo laddove la si lascia morire, in un abbandono fiducioso e scandaloso allo stesso tempo, che ha come unica garanzia il fatto che Cristo precede, e al discepolo chiede solo di seguirlo: “Dove sono io, là sarà anche il mio servo” (v. 26).

 Tutto questo, Gesù lo affronta con l’animo di chi è e resta anche uomo. Non da eroe impassibile. Mostra dunque anche la sua lotta: “Ora, l’anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome” (vv. 27-28). Abbiamo qui la versione giovannea del combattimento nel giardino del Getsemani, quando Gesù affida a Dio, nel medesimo istante, la sua sofferenza e il suo affidamento, mettendo tutto nelle sue mani. La voce che scende dal cielo a confermare Gesù in quel cammino ricorda l’angelo venuto a consolarlo, secondo il vangelo di Luca (cf. Lc 22,43).

 A questo punto Gesù dichiara conclusa la sua missione, con il giudizio del “principe di questo mondo” (v. 31) e l’innalzamento del Figlio dell’uomo: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (v. 32), eco del Servo innalzato di cui parla Isaia: “Ecco, il mio servo avrà successo, sarà innalzato, onorato grandemente” (Is 52,13). Si conclude così la parabola del nostro brano: i Greci che chiedono di vedere Gesù sono rimandati all’unico segno fedele e inequivocabile: il Crocifisso, in tutta la sua gloria, che è anche gloria del Padre, vale a dire immagine eloquente dell’infinito amore di Dio. La fede nasce da questa contemplazione: l’icona più eloquente ed efficace che Dio ha trovato per narrare il suo amore, come dice Isacco di Ninive.

Come seme, Gesù entra nella terra del mondo: quella terra di cui i Greci si sono fatti portavoce ora accoglie il suo Signore; e da quella medesima terra egli sarà innalzato, perché tutti possano vederlo ed esserne attratti.

 Nel Figlio innalzato, la morte e la resurrezione di Gesù sono un tutt’uno e non l’una rivincita sull’altra. Sono un tutt’uno perché narrazione di un medesimo amore, che osa morire, come il seme, come in un atto d’amore, nella certezza che da lì nascerà un frutto abbondante.

 Monastero di Bose

RAGAZZI. SALUTE MENTALE IN CRISI



 
Solitudini, dipendenze, disagio, ritiro sociale: i più giovani sotto pressione. 

E gli adulti non stanno molto meglio.

Il punto annuale sul benessere psichico degli italiani nel convegno dell’Ufficio Cei per la Pastorale della salute con psichiatri e studiosi. Cresce l’allarme per patologie che insidiano le nuove generazioni


Baturi: «L’incontro nasce solo quando riconosco l’altro come persona, anche con tutte le sue ferite. E mi prendo cura di lui»

 

-         di PINO CIOCIOLA

    

Il futuro non sembra di grande compagnia. Anzi, mostra piazze quasi solo virtuali e solitudini reali, condite da una discreta tristezza e qualche senso di vuoto. Mentre il presente neppure mostra un barlume d’inversione di rotta e tendenze. Non c’è insomma da stare granché allegri, specie pensando ai più giovani, ma tocca muoversi, com’è stato spiegato a “Le grandi solitudini. La Chiesa italiana e la salute mentale”, settima edizione del convegno promosso dall’Ufficio nazionale per la Pastorale della salute della Cei, in collaborazione con l’Associazione italiana psicologi e psichiatri cattolici e l’associazione “In punta di piedi”, con una ventina di relatori.

 Pandemia della solitudine.

 Diversi elementi «ci fanno dire che oggi viviamo una “pandemia della solitudine”, e si direbbe che il contesto sociale occidentale attuale non aiuta la relazione», dice in un videosaluto inviato al convegno monsignor Giuseppe Baturi, segretario generale della Cei. Ma «l’incontro, la relazione, può nascere solo quando riconosco l’altro, anche nelle sue fragilità, anche quando è vulnerato, ha subito qualche ferita, lo riconosco come persona, come un “tu” che possiede quell’originario valore per sé stesso. E mi prendo cura di lui».

 Ritiro sociale. Punto, già sconsolante, di partenza, socialmente parlando: «Una percentuale di ragazzi tra l’11 e il 27% soffre di sentimenti di tristezza e vuoto, quando diventano consapevoli della scarsa quantità e qualità delle proprie relazioni sociali», percentuale che «sale al 40% se si considera l’età adulta», spiega Stefano Vicari, docente di Neuropsichiatria infantile alla Cattolica di Roma e responsabile dell’Unità operativa complessa Neuropsichiatria infantile e dell’adolescenza all’Ospedale Bambino Gesù. Occhio poi al cosiddetto “ritiro sociale” (sottrarsi alle opportunità d’interazione con i coetanei), visto che si stimano in questa condizione «120mila ragazzi ».

 Vita da smartphone . Ancora Vicari: «Il 78,3% di bambini fra 11 e 13 anni utilizza internet tutti i giorni, soprattutto attraverso lo smartphone ». A proposito, «i bambini tra sei e dieci anni che utilizzano lo smartphone tutti i giorni sono passati dal 18,4% del 2018/19 al 30,2% del 2020/2021», cioè dopo la pandemia. Risultato? «Facile e veloce soddisfazione dei bisogni virtuali», «controllo sugli altri, sulle proprie emozioni e i propri comportamenti», «eccitazione da immagini, suoni e video durante la navigazione». Naturalmente con la “sindrome da disconnessione” scattano «ansia, tristezza e rabbia», annota Vicari. Così – conclude – «la dipendenza da strumenti elettronici è la piaga di questi anni». Con relativa e annessa solitudine.

 Condizione patologica. Tanto più che c’è una bella differenza fra stare soli, restarci o finirci: «Se usiamo l’espressione “stare da soli” – annota l’Ufficio Cei per la Pastorale della salute, diretto da don Massimo Angelelli – possiamo pensare a un’opportunità per generare nuove energie, progetti, sviluppi. Se passiamo a “restare da soli” tratteggiamo uno scenario velato di tristezza, con la sensazione che si sia perduto qualcuno di prezioso. Ma quando nel nostro linguaggio entra la parola “solitudine” disegniamo un quadro malinconico che confina con – o addirittura entra in – una condizione patologica». Dunque, «nato per la relazione, l’essere umano, si trova non poche volte in condizione di solitudine, al punto che la letteratura a più riprese lo descrive come un essere “solo” dalla nascita alla fine».

 I “divorzi grigi”. Prendiamo la coppia che scoppia, altro giro di potenziali (e purtroppo non solo) solitudini. Un campanello ormai più che d’allarme sono i “ grey divorces” (divorzi grigi), i divorzi che avvengono oltre i cinquant’anni. E sono le donne – sottolinea Cinzia Niolu, medico, psicoterapeuta, psichiatra, dirigente della Uoc di Psichiatria della Fondazione Policlinico Tor Vergata – ad avere «una maggiore difficoltà a riprendersi emotivamente e psicologicamente».

 Disabilità. Ancora, pensando alla solitudine delle famiglie con figli disabili, «nell’ultimo decennio il numero delle consulenze neuropsichiatriche al Dipartimento emergenza e accettazione del Bambino Gesù è aumentato undici volte», fa sapere Paolo Alfieri, dottore in Neuroscienze dello Sviluppo, Uoc di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza del Bambino Gesù di Roma. Intanto, nel mondo «più di un adolescente su sette tra 10 e 19 anni convive con un disturbo mentale diagnosticato» e «il suicidio è la seconda causa di morte tra 15 e 19 anni in Europa». Testimonianza della mamma di una ragazza disabile in cura al Bambino Gesù: « Invitare un familiare in casa a pranzo o per un semplice incontro è impensabile. Ancor più quando tutti si riuniscono», come a Natale o per un compleanno, che «per noi rimane un’utopia».

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